venerdì 20 febbraio 2009


Manifesto del Futurismo
Le Figaro - 20 febbraio 1909
Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità.

Il coraggio, l'audacia, la ribellione,
saranno elementi essenziali della nostra poesia.



La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità penosa, l'estasi ed il sonno.

Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.

Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità.
Un'automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo...
un'automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bella della Vittoria di Samotracia.

Noi vogliamo inneggiare all'uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita.

Bisogna che il poeta si prodighi con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l'entusiastico fervore degli elementi primordiali.

Non v'è più bellezza se non nella lotta.

Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro.

La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all'uomo.

Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!

... Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell'impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri.
Noi viviamo già nell'assoluto, poiché abbiamo già creata l'eterna velocità onnipresente.

Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei liberatori, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.

Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d'ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica e utilitaria.

Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa:

canteremo le marce multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne;

canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri, incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole per i contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che fiutano l'orizzonte, e le locomotive dall'ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d'acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta.

È dall'Italia che noi lanciamo per il mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria col quale fondiamo oggi il FUTURISMO perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d'archeologi, di ciceroni e d'antiquari.

Già per troppo tempo l'Italia è stata un mercato di rigattieri.
Noi vogliamo liberarla dagli innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri.


Filippo Tommaso Marinetti

1 commento:

  1. Per chi dice che non furono fascisti...
    “Il futurismo fu l'espressione artistica del fascismo e Marinetti vole seguire Mussolini a Salò”
    Tre colonne all’apertura della prima pagina del quotidiano parigino “Le Figaro”, il 20 febbraio 1909, erano occupate da un grande articolo, intitolato Le Futurisme. Con la effe maiuscola, come si deve al nome di qualcosa di molto importante. Seguivano una entusiastica presentazione del movimento e il suo manifesto, per intero fino alla firma di Filippo Tommaso Marinetti. Quel quotidiano era il più autorevole e diffuso di Parigi, circolava negli ambienti del potere, nelle ambasciate e arrivava anche all’estero. Fra le sue firme si erano letti i nomi di Emile Zola, Marcel Proust, André Gide, George Sand, Guy de Maupassant, Octave Mirbeau, Théophile Gautier. Il manifesto del futurismo era uscito due settimane prima (5 febbraio 1909), ma in Italia, per la prima pubblicazione, aveva dovuto contentarsi della cronaca letteraria di un quotidiano bolognese minore, “La Gazzetta dell’Emilia” (in Emilia, il foglio leader era già “Il resto del Carlino”). Il chiasso verrà dopo, su tutti i giornali italiani.
    Filippo Tommaso Marinetti veniva da Alessandria d’Egitto, dove era nato il 22 dicembre 1876 perché suo padre vi esercitava la professione legale, che aveva fatto ricca la famiglia. Ma chi era realmente Marinetti? Il teorico di una nuova arte? Il precursore delle avanguardie del ‘900? Un rivoluzionario? Un abile promotore di sé? Un mistificatore? Un matto? C’era forse un po’ di tutti questi elementi. Però, quella parte che ha caratterizzato le arti figurative del ‘900, proprio nel suo movimento aveva fatto i suoi passi, talvolta decisivi. Questo non lo si voleva dire. Di Marinetti, si preferiva ricordarne solo le estrosità stravaganti. Se vogliamo vedere serenamente il nesso culturale fra Marinetti e gli esordi dell’arte moderna, dobbiamo leggere il libro di Giordano Bruno Guerri, Filippo Tommaso Marinetti. Invenzioni, avventure e passioni di un rivoluzionario, scritto senza boria e oscurità professorali, ma solidamente documentato (Mondadori ed., pp. VI-338, euro 20). Quanto a Marinetti, si può ricordare che il libro non è limitato alla sua personalità artistica, ma del fondatore del Futurismo fa conoscere anche le vicende personali e familiari.
    Quando un’idea e un sistema politico vengono sconfitti, si usa mandare all’inferno tutto quello che vi ha ruotato intorno: arte, cultura, persone. Così è successo anche col Futurismo, perché il fondatore, Marinetti, aveva fatto coincidere la sua vita personale e politica con l’intera stagione del fascismo. Di lui, cassazione totale dunque, senza volerne conoscere la storia. Tutto liquidato. Si era persa così la possibilità di ricordare che in quel movimento avevano operato i nomi più significativi delle arti figurative del ‘900 italiano: Carlo Carrà, Giacomo Balla, Umberto Boccioni, Gino Severini. Erano le firme del manifesto della pittura futurista, che aveva abolito l’immagine e la prospettiva, introducendo la visione da più punti di vista che voleva esprimere il dinamismo. Quelle regole, nei fatti, hanno dominato per decenni le arti figurative, andando ben al di là del nostro Paese perché ci furono persino un futurismo russo e ungherese. L’elenco dei futuristi non si limita ai nomi che abbiamo ricordato. Il gruppo degli artisti milanesi si trasferì a Roma, a fondare il “secondo futurismo”, e poi il terzo. I nomi, nei vari campi, furono quelli di Mario Sironi, Enrico Prampolini, Ardengo Soffici, Bruno Munari, il maestro delle espressioni nuove del design e della grafica. Non si trattò dunque di una ventata passeggera, né fu limitata alle arti figurative. Scorreva intanto la storia del fascismo, più che ventennale per Marinetti. Il futurismo ne fu espressione artistica, e Marinetti volle seguire Mussolini fino a Salò. E allora? Gli aspetti, per Marinetti, sono due: quello artistico e quello politico. La vita non si riesce quasi mai a studiarsela a tavolino in anticipo, con calcolo e freddezza. Ci sono passioni forti che possono accompagnare nelle scelte. C’è chi sente il bisogno di coerenza con sé e col proprio passato, come dev’essere stato per Marinetti. Così può succedere di andarsene a dare testimonianza politica fino al fascismo morente. Dannandosi per il resto dei tempi. Onesta, viva, appassionata, ampia, documentata con grande scrupolo è la biografia che Giordano Bruno Guerri ha dedicato a Marinetti. Egli ha riportato alla luce un dannato. Due volte dannato, nell’arte e nella politica.
    Nico Perrone
    Professore dell'Università degli Studi di Bari

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