lunedì 31 dicembre 2007



In via Acca Larentia c'è uno stanzone chiuso da una saracinesca grigia che sprofonda tra i palazzoni ancor più grigi del quartiere tuscolano.

Un luogo anonimo, una via non certo degna del suo nome che evoca i leggendari natali di Roma. Negli anni '70 in quello stanzone c'era la sezione del MSI, una sezione tanto attiva da animare quel quartiere dai colori spenti.

Il 7 gennaio del 1978 c’è una riunione del Fronte della Gioventù.
Si programmano attacchinaggi in zone diverse di Roma, così alcuni giovani decidono di andare. Nella sede restano Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta e altri tre.
Decidono di chiudere la sede e anche loro andranno a raggiungere i camerati a Piazza Risorgimento. Sono le sei di un pomeriggio che l'inverno impietoso ha già coperto di buio.

Franco apre la porta blindata e la luce che trafila dalla sezione annuncia l'uscita dei giovani militanti. Ha 19 anni, è figlio di un impiegato e studia medicina, e muore raggiunto da due colpi alla testa, esplosi prima che se ne potesse accorgere, appena uscito dal locale.

Il corpo si accascia lasciando la sua scia di sangue ancora caldo sulla gelida porta della sezione, dietro di lui Francesco avrà coscienza della sua fine, tentando invano di fuggire verso la fine della via, dove c’è una scalinata, ma una raffica di mitra lo travolge colpendolo al torace.
Cade anche lui. Francesco aveva solo 18 anni, era figlio di un operaio.
Gli altri tre giovani riescono a barricarsi nella sezione, benché uno di loro viene ferito ad un braccio. Sentono la furia omicida appena fuori dal locale, che come è venuta vigliaccamente se ne va con il favore delle tenebre.

I soccorsi tardano ad arrivare, Francesco spegnerà i suoi sensi tra le braccia dei suoi Camerati, la sua vita invece si spegnerà poco prima dell'arrivo in sala operatoria.

Una mitraglietta Skorpion ha messo fine alle loro esistenze, ma la tragedia, che in futuro segnerà i cuori e il destino di molte vite, non ha ancora visto il suo ultimo e doloroso atto.

Sul luogo giungono i militanti da tutta Roma, increduli e infusi di rabbia per l'ennesimo vigliacco atto. Guardano pieni di dolore il sangue dei loro camerati sparso in quell’ormai non più anonima via. Non curanti del dolore, i giornalisti della Rai forzano la porta della sezione e cercano di rubare le emozioni dei militanti missini.

Un operatore della televisione butta con sprezzo un mozzicone di sigaretta sulla pozza di sangue di Francesco. Come se gettata su benzina, quella sigaretta dà la scintilla che infiamma i giovani, seguono così disordini ed il capitano dei carabinieri Edoardo Sivori spara contro il gruppo di ragazzi ad altezza d'uomo, ad altezza d'uomo!
Un altro innocente Camerata, Stefano Recchioni, di appena 19 anni avrà spenta la propria vita con una pallottola in testa. Cambia la regia, ma non la sprezzante brutalità.

La mano che ha ucciso Stefano è nota, il duplice omicidio di Franco e Francesco verrà rivendicato dai Nuclei Armati Contropotere Territoriale e le confessioni di una pentita, Livia Todini, hanno portato all'arresto di un infermiere che, il giorno dopo essere stato interrogato dai giudici, si toglie la vita in cella.
Altri tre arrestati: Fulvio Turrini, Cesare Cavallari e Francesco de Martiis vengono assolti in primo grado "per insufficienza di prove", come pure Daniela Dolce, rimasta latitante.
Come tanti, troppi, che hanno bagnato con il sangue dei ragazzi di destra, una politica a colpi di P38 rimasta impunita, quando uccidere un fascista non era reato.
I due giovani missini sono stati assassinati con una mitraglietta “Skorpion” la stessa che dieci anni dopo nel 1988 si scoprirà di aver firmato altri tre omicidi, marchiati dalle Brigate Rosse: quelli dell’economista Ezio Tarantelli, dell’ex sindaco di Firenze Lando Conti e del senatore Roberto Raffili.

Prima di Acca Larentia la gioventù alternativa aveva mostrato la volontà di aprirsi all'esterno, sfidando a viso aperto la fracida partitocrazia, rispondendo con la politica alle intimidazioni armate dei "compagni" e all'impunità della giustizia e dei suoi alfieri scudocrociati.

Volontà stroncata da quel massacro, che regalerà giovani corpi e giovani menti alla lotta armata, vista come necessaria.
Il punto di non ritorno, oltrepassato il quale la militanza non accettava più di essere carne da macello. La strategia del terrore ha trovato il tacito consenso, e forse anche la regia, nelle istituzioni, nei garanti della nostra patetica democrazia.
Quando ancora oggi è facile tenere in piedi il castello di menzogne su Ciavardini, ma è impossibile strappare al sole carioca Achille Lollo (uno dei responsabili materiali del rogo di Primavalle), Acca Larentia è una ferita lungi dal rimarginarsi.

A Roma la volontà di intitolare una via alle vittime di quel massacro si è dovuta scontrare contro l'ostruzionismo comunista il cui unico gesto in via Acca Larenzia è stato quello di dare fuoco alla sezione, qualche anno fa...

FRANCO, FRANCESCO, STEFANO...
NEL VOSTRO RICORDO
LA NOSTRA LOTTA!
Cmc 451

14 commenti:

  1. ONORE A TUTTI I CADUTI SOTTO L'INFAME FUOCO DEL NEMICO, PRIMA PARTIGIANO POI BRIGATISTA! CONTRO L'ODIO COMUNISTA SEMPRE, PERCHE' DA SEMPRE ANTICOMUNISTI. CAMERATI CADUTI.....PRESENTE!

    FN AVELLINO

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  2. «Sono passati 30 anni - dice Fini - e qui vedo uomini di 50 anni che ho lasciato 30 anni fa, proprio qui ad Acca Larentia». «L’auspicio all’unità - ammette - è nel cuore di tutti ma appartiene alla sfera del sentimento. Poi la politica porta a scelte diverse e qui nascono i contrasti, le differenze» (La Repubblica, 8 Gennaio 2008) e ancora "Alemanno, a sua volta, rimarca lo stesso concetto. Ma invita i litiganti alla ragionevolezza. «Le scelte politiche rimangono ma non ci devono portare a faide od odii»".
    Appunto; il problema e che non ci sono litiganti, perché, per quanto mi riguarda e credo riguardi molti che hanno lasciato AN nel 1995 (quando era francamente un bel pochino più difficile rispetto a tempi assai più recenti), faide non se ne sono mai cercate, odio nemmeno. Perché l'odio é sentimento e passione che si accorda ai nemici, a quelli che si incontrano in campo aperto, magari ad armi impari, ma con la tenacia che, spento il clangore delle spade, lascia spazio alla riconciliazione, se si é sostenuta onorevolmente la battaglia e lo spazio vitale é nuovamente riassicurato alla comunità, ai suoi sentimenti, alle sue idee, che si sono intesi interpretare.
    Nemici siffatti dunque meritano di ragionare in termini di battaglia ed odio, e tali non consideriamo ne i sopra citati, ne chi sceglie di seguire la loro strada. Ma non per questo apprezziamo che sui sentimenti si giochi, che si finga di ignorare che le battaglie, le ferite, la galera e i lutti sono avvenuti in ragione di una continuità ideale e di un progetto politico che può si aggiornarsi (per carità, non mi risulta che nessuno dei nostri "punti di riferimento politico-ideologico", almeno da Corridoni in poi, abbia mai scritto o detto dell'immutabilità del metodo e forse anche di qualche merito), ma non può e non deve essere stravolto; altrimenti non di "aggiornato" si parla, ma si deve dire "rinnegato".
    Altra questione che non mi sento di condividere; chiedere giustizia, oggi tanto più a trenta anni da quei fatti.
    L'unica giustizia del rivoluzionario é la vendetta; chiedere giustizia ad un regime che da 30 anni a questa parte non é cambiato se non che nelle forme, é un tipo di richiesta che non mi accomuna. Mi spiace, sarò infantile, ma non me la sento perché so che non c'era e non ci sarà, tanto più oggi, alcuna giustizia, anche perché francamente non so con quanta energia siamo stati capaci di alzare la voce per ottenerla nei tanti ieri, dietro le nostre spalle.
    É un po' come ripetere il "non rinnegare, non restaurare"; sposo quella sintetica retorica abbarbicandomi ad una Continuità e a sentimenti antichi, certo poco ecumenici, aderente al sentire (se non purtroppo all'agire) della Tradizione. Non sposo l'altra retorica, invece; quella di chiedere giustizia che non c'é mai stata, non ci sarà (ad esempio c'é stata giustizia per Ramelli o piuttosto c'é stato solo il sonnolento stracciarsi le vesti di chi "non si rese conto della possibilità di uccidere" e di chi é rimasto soddisfatto del "pentimento"), ne con "governi nemici" ne con supposti "governi amici". Non c'é stato mai il riconoscimento dignitoso della guerra civile dopo l'8 settembre, figuriamoci se mai poteva avvenire di quella del dopoguerra. Non c'é perdono da accordare, perché non c'é stata giustizia dello Stato "democratico", come non ci fu volontà di garantire il dibattito e il confronto civile, come non c'é mai stato da parte degli avversari politici nessun ripiegamento sulla legittimità comunista all'eliminazione fisica dell'avversario.
    Anche per questo la mia scelta l'ho fatta nel gennaio 1995 e, ad oggi, non vedo alcuna ragione per ripensare la Continuità che ho inteso ed intendo rivendicare con essa, e con l'attività militante successiva, attuale e futura.
    Ecco perché sottolineare che i nostri caduti li onoriamo con la nostra Coerenza -spiace che diversi si siano affrettati a non ritenere fosse il caso di stampare il manifesto che avevo fatto inserire sul sito, per "non passare noi per speculatori sul sangue dei camerati"-; quello era ed é il messaggio che ha accomunato non chi é andato (questa volta con scorta leggera, vista la generosa volontà di consentire un omaggio, che doveva però avere altro tono e altra condivisione, se non si desiderava solo un tardivo recupero di forme e riconoscimenti che da troppo tempo mancavano, o semplicemente si cercava un po' di pubblicità) la mattina, ma i moltissimi che hanno sfilato la sera.
    Sta tutto lì senso del mio 7 gennaio.
    Che ognuno si chieda, soprattutto se milita nella Fiamma Tricolore, dove sta il senso della sua presenza ieri, e dove sarà il senso di quella di domani.
    Altrimenti é bene che ciascuno scelga di fare altro; io non ho mai contato amici e nemici prima di fare le mie scelte.

    Luca Romagnoli

    Fonte: http://www.fiammatricolore.net/fiamma/

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  3. ROMA (7 gennaio) - La destra italiana, dispersa oggi nella sua diaspora, ricorda a trenta anni di distanza i ragazzi di Acca Larentia: Francesco, Franco, Stefano. I «topi neri» freddati da un gruppo di militanti di estrema sinistra il 7 gennaio 1978. Deponendo tre corone davanti all’allora sede del Msi (ora di Fiamma Tricolore) Fini ha parlato di «anni all’insegna dell’odio ideologico, della totale assenza di giustizia; anni che non devono ripetersi in alcun modo. Perché questo accada è giusto ricordare chi è stato ucciso e che la passione politica non deve mai tracimare nell’odio».
    Fini seduto in prima fila nella chiesa circolare di San Gaspare. Poche panche più in là si commuovono Luca Romagnoli, leader della Fiamma Tricolore e Teodoro Buontempo, presidente de La Destra e scatta l’applauso quando Barbara Zicchieri, sorella di un altro giovane ucciso da un gruppo armato nel ‘75, con la voce spezzata dal pianto, dice: «Francesco, Franco e Stefano sono tre angeli e il regalo più bello per loro è che oggi siete tutti qui, insieme».
    Quando la sorella di Zicchieri - detto “cremino”, ricorda Fini commuovendosi al pensiero di quel bambino di 14 anni morto per mano armata e goloso di quel tipo di cioccolatini - invoca l’unità della destra in memoria dei morti, il leader di An piange. Piangono ragazzi e ragazzi con bomber neri e capelli rasati, che certo il 7 gennaio 1978 non erano nati. Piangono le famiglie ancora incredule. Si asciuga le lacrime Buontempo accompagnato da dirigenti e militanti del partito di Storace. Eppure il miracolo non c’è. Fini se ne va chiedendo che “paghi chi ancora non ha pagato”, ma relega alla sfera del sentimento quell’auspicio di unione. «La politica porta a scelte diverse e qui nascono le differenze, i contrasti», spiega. «Destra divisa. Neanche dopo il Vangelo di Giovanni, al segno della pace la destra divisa comunque riesce a riunirsi. Fini, Tremaglia, Alemanno, Gasparri, Ronchi si danno la mano tra loro, così come fa Luca Romagnoli con i giovani della Fiamma Tricolore poche panche più in là e Buontempo con i militanti de La Destra, in chiesa anche per rappresentare Francesco Storace, che ha voluto marcare le distanze da Fini ed andarsene a Napoli, a far visita nel carcere di Poggioreale a Luigi Ciavardini, condannato per la strage della stazione di Bologna. Alessandra Mussolini e Alternativa Sociale poi non ci sono. E Adriano Tilgher del Fronte Nazionale attacca Fini «che si ricorda di Acca Larentia solo ora perchè teme di perdere voti».
    Veltroni: un giorno terribile. La strage di Acca Larentia è stata definita «un giorno terribile per tutta la città di Roma» dal sindacao Walter Veltroni che annuncia la dedica di una strada, come richiesto dal Consiglio Comunale.« E’ un dovere civile, impegnativo per tutta la nostra comunità che rivendica con forza le proprie basi democratiche e il conseguente rifiuto di ogni tipo di violenza».
    Il corteo. Una bandiera italiana listata a lutto seguita da cinque ragazzi e dietro lo striscione con la scritta «30 anni senza giustizia». Così hanno sfilato a Roma giovani e meno giovani dopo avere preso parte alla messa in ricordo delle giovani vittime. Il corteo, partito da piazzale Appio, è sfilato fino al luogo della strage. I partecipanti, secondo gli organizzatori quattromila, hanno sfilato in maniera ordinata, in fila, con torce accese.

    fonte www.ladestra.info

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  4. È il 7 gennaio del 1978.
    Un commando di estremisti di sinistra, con una mitraglietta poi usata dalle Brigate Rosse, fa fuoco contro l’ingresso di una sezione dell’allora Msi tra Appia Nuova e Tuscolana. Due attivisti, Franco Bigonzetti, 20 anni, e Francesco Ciavatta, 18, muoiono subito. Stefano Recchioni perde la vita nei successivi scontri con i carabinieri (sic! Leggasi ucciso a sangue freddo dal capitano Sivori). Roma, in quei giorni, era così.
    Almeno tremila giovani, nel tardo pomeriggio, hanno sfilato con le fiaccole da via Taranto al Tuscolano per ricordare. Non c’erano bandiere di partito ma solo uno striscione in testa al corteo: “30 anni senza giustizia”. Uno dei membri del commando, Mario Scricca, si suicidò in carcere. Altri tre furono assolti per insufficienza di prove. Insomma: un colpevole non c’è. (Tranne quello che non è stato perseguito, ovviamente...)

    tratto da www.noreporter.org

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  5. Una strada per ricordare Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, i due militanti del Fronte della Gioventù uccisi trent’anni fa, il 7 gennaio 1978, in un agguato di attivisti dell’estrema sinistra in va Acca Larentia. Lo ha annunciato ieri il sindaco Walter Veltroni, che ieri ha ricordato quel «giorno terribile per tutta la città di Roma» anche se ha dimenticato di inserire nel conteggio dei morti Stefano Recchioni, militante della sezione Colle Oppio del Fdg che morì poche ore dopo, centrato da un carabiniere nel corso di una manifestazione spontanea sul luogo dell’agguato. Una dimenticanza che non diminuisce il plauso di Gianni Alemanno, presidente romano di An che ieri, lasciando la Chiesa di San Gaspare dove Gianfranco Fini e i vertici del partito, insieme a Luca Romagnoli della Fiamma Tricolore e a Teodoro Bontempo de La Destra, hanno celebrato con un messa, il trentennale della strage, ha ricordato che «troppe persone sono rimaste senza giustizia, e fino agli anni ’70 davvero uccidere un fascista non era un reato. Ha fatto bene oggi Veltroni a decidere di intitolare una strada ai nostri ragazzi morti ad Acca Larentia». Positivo fino a un certo punto il commento di Marco Marsilio, capogruppo di An in Campidoglio, che accoglie «con piacere la notizia che il sindaco Veltroni si appresta a dare corso alla volontà del Consiglio comunale di intitolare una strada ai ragazzi caduti in via Acca Larentia 30 anni fa». «Resta però l’amarezza - aggiunge poi Marsilio - di dover constatare che per decidere di dedicare una strada alle giovani vittime di destra del furore ideologico degli anni ’70 non solo sono dovuti passare trent’anni dalla data dell’evento, ma sono state necessarie ben due votazioni in Consiglio comunale». Marsilio ricorda che già due volte un ordine del giorno approvato dal consiglio comunale per una via alle vittime di Acca Larentia non ebbe seguito. Ieri sera per ricordare la strage di Acca Larentia si è svolto un corteo per le strade dell’Appio a cui hanno partecipato migliaia di militanti di tutte le anime della destra. Il corteo è stato aperto da una bandiera tricolore listata a lutto seguita da uno striscione con la scritta «30 anni senza giustizia». Tra i partecipanti il presidente della Destra Teodoro Buontempo, il segretario della Fiamma Tricolore Luca Romagnoli e i consiglieri comunali Fabio Sabbatani Schiuma (La Destra) e Alessandro Cochi (An).

    tratto da : Il Giornale

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  6. Gianfranco Fini in chiesa con le lacrime al volto, la “Gioventù Italiana” che lo invita a «ripudiare i salotti», Teodoro Buontempo che chiede di «tenere viva l’idealità». La destra romana, lacerata finché si vuole, si è ricordata ieri di avere un passato profondamente comune e ha “celebrato” insieme il trentennale della strage di Acca Larentia.
    È il 7 gennaio del 1978. Un commando di estremisti di sinistra, con una mitraglietta poi usata dalle Brigate Rosse, fa fuoco contro l’ingresso di una sezione dell’allora Msi tra Appia Nuova e Tuscolana. Due attivisti, Franco Bigonzetti, 20 anni, e Francesco Ciavatta, 18, muoiono subito. Stefano Recchioni perde la vita, tra le braccia di Francesca Mambro, poi passata al terrorismo, nei successivi scontri con i carabinieri. Roma, in quei giorni, era così.
    Almeno tremila giovani, nel tardo pomeriggio, hanno sfilato con le fiaccole da via Taranto al Tuscolano per ricordare. Non c’erano bandiere di partito né di An, nè della Destra di Storace, né di Forza Nuova ma solo uno striscione in testa al corteo: “30 anni senza giustizia”. Uno dei membri del commando, Mario Scricca, si suicidò in carcere. Altri tre furono assolti per insufficienza di prove. Insomma: un colpevole non c’è. «L’auspicio ha detto Fini è che paghi chi non ha ancora pagato. La pacificazione passa dal riconoscimento delle colpe». Il sindaco Veltroni ha definito «terribile per tutta Roma quel 7 gennaio». Ricordarlo, ha aggiunto, è «un dovere civile», aggiungendo che presto una strada verrà intitolata alle vittime.
    Una messa nella parrocchia di San Gaspare, in via dei Colli Albani, vicino al luogo della strage, ha ricordato le vittime. C’erano, oltre a Fini, Alemanno, Gasparri, esponenti di Forza Nuova e della Destra. Storace era andato a incontrare nel carcere di Poggioreale, a Napoli, Luigi Ciavardini, poi condannato per la strage di Bologna. «Lui è in carcere per una sentenza messa in discussione anche a sinistra, mentre per i caduti del 7 gennaio 1978 non c’è traccia di giustizia».
    I tanti ragazzi presenti alla funzione nel 1978 non erano neppure nati. Ma Bigonzetti, Ciavatta e Recchioni non sono stati dimenticati. «Erano persone semplici come noi spiegano in tanti fuori dalla chiesa Erano fratelli. Anzi, camerati. Credevano nel Fascismo. Non nel Fascismo nostalgico del regime, ma in quello ideale dei primi anni». Il prete, alla fine della cerimonia, ha lasciato la parola a due oratori. Il primo Mirko Tremaglia: «Quello ha detto fu un giorno di indimenticabile bestialità. Noi siamo gli eredi di coloro che caddero». Poi ha parlato Barbara Zicchieri, sorella di un altro giovane di destra ucciso negli Anni di Piombo. «Sono contenta ha confessato di vedere qui riunite persone che in questi anni si sono divise. È il più bel regalo che si possa fare ai quei ragazzi».



    «Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta e Stefano Recchioni non capirebbero la frammentazione che oggi vedo a destra nella nostra comunità. Il tricolore per me era tutto e lo era anche per loro. Stavo in classe con Storace al liceo XXIII: onore, patria, fede, onestà, identità, tradizione. Abbiamo combattuto per le stesse cose: le vittime della strage di Acca Larentia ci dicono, trent’anni dopo, che dividerci non ha senso».
    Giuseppe D’Audino, 48 anni, oggi avvocato, presidente di un circolo di An a Ciampino, quel giorno c’era. La messa per vittime di Acca Larentia è appena finita. Il sagrato della parrocchia di San Gaspare, tra l’Appia e la Tuscolana, è silenzioso ma dice molto: Fini, commosso, viene intervistato da una tv, Buontempo arriva da solo, Tremaglia sta un po’ in disparte. D’Audino, il 7 gennaio del 1978, fu uno dei tre giovani che scamparono ai colpi di pistola di un commando dell’ultrasinistra armato dal fanatismo e dalla ferocia: cose impossibili da dimenticare.
    «Mi salvai per caso ricorda Volevano ucciderci tutti. La porta della sezione era aperta. Quando capii che ci stavano sparando, istintivamente mi buttai dentro. Spegnemmo la luce. Da lì, a terra, sentii imprecare gli assassini: capivano che qualcuno era ancora vivo. Ci rendemmo conto della tragedia, quando riaccendemmo: una chiazza di sangue si stava allargando per terra. Bigonzetti l’avevano preso a un occhio, Ciavatta cadde su un ballatoio di fianco all’entrata».
    D’Audino spera che «quei tempi non tornino più». Davanti alla chiesa ci sono almeno duecento giovani. «L’augurio dice è che siano mossi dagli stessi ideali semplici che muovevano noi: la patria, la famiglia, la nazione. Io allora avevo diciotto anni. Eravamo in una guerra e ce ne rendevamo conto. Lo ripeto: non dobbiamo dividerci. Abbiamo avuto gli stessi lutti. Franco, Francesco e Stefano ci vorrebbero uniti».
    L. Lip.

    Tratto da : Il Messaggero

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  7. Acca Larentia, lacrime e cortei Divisi ma uniti nelle lacrime. Sono stati tre i momenti in ricordo della strage di Acca Larentia nella quale il 7 gennaio 1978 morirono tre giovani mlitanti dell'Msi. In mattinata Gianfranco Fini e Gianni Alemanno hanno deposto una corona di fiori. In serata oltre 5000 giovani hanno sfilato lungo l'Appia in un corteo organizzato da Fiamma tricolore (foto Eidon). Tra i due appuntamenti nel pomeriggio si è svolta una messa in suffragio a Colli Albane durante la quale sia Gianfranco Fini che il segretario di Ft Luca Romagnoli sono stati accomunati dalla commozione.
    fonte Ansa

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  8. Strage di Acca Larentia Si riapre la guerra civile

    di Luca Telese - lunedì 07 gennaio 2008


    Clicca per ingrandire Il biglietto, solo pochi secondi prima di uscire dalla sezione, lo scrisse Franco Bigonzetti, lasciandolo sul tavolo come si faceva prima che inventassero gli sms: «Siamo a Prati. Ci vediamo domani. Franco». Invece Franco, i camerati con si era dato appuntamento non li avrebbe rivisti mai più. E la sera stessa sarebbe finito immortalato in una di quelle terrificanti istantaee da paparazzo per cui oggi i garanti danno il carcere a vita. La foto all’epoca fu pubblicata, invece, su L’Espresso. E a doppia pagina, con un titolo da far accapponare la pelle La guerra civile italiana. Era appropriato. Nella foto Franco è riverso su un lettino d'ospedale, ha un occhio perforato da una pallottola e il viso allagato di sangue, la camicia stropicciata e alzata sulla pancia, con il capezzolo scoperto, e sopra un’altra macchia di sangue, e la cravatta ancora allacciata, perché la morte quando ti sorprende è strana, non si cura mai dell’incoerenza. Con lui morirono altri due ragazzi, in una serata festiva romana. Francesco Ciavatta, che dall’ingresso della sezione fece in tempo a trascinarsi fino alle scalette. E poi, per la ferita di quella sera, morì poco dopo Stefano Recchioni. Morirono in tre, e in condizioni folli e incredibili, e furono seguiti da altri tre morti, tutti legati a quella carneficina: dopo scontri con la polizia, guerriglia urbana e candelotti lacrimogeni, P38, barricate in strada, auto incendiate. Una maledizione che inizia lì, il 7 gennaio 1978, Sezione di Acca Larentia. O meglio: «strage di Acca Larentia». Trenta anni fa, il giorno che tenne a battesimo la nascita del terrorismo nero.
    Acca Larentia era una delle sezioni di periferia del Msi, nel pieno degli anni di piombo. Uno degli avamposti sperduti, nel tempo in cui le capitali italiane divennero campi di battaglia, nel tempo in cui rossi e neri si sparavano per le vie e i numeri delle vittime e delle rappresaglie iniziavano a confondersi e a sovrapporsi. Morirono in tre, per i fatti di quella sera, ma in realtà avrebbero dovuto essere in sei. Li aspettavano all'uscita dalla sezione appostati. Erano un commando, forse di Autonomia. Probabilmente ottennero ad Acca Larentia il loro battesimo del fuoco, forse il prezzo per arruolarsi nelle Brigate Rosse. Chi ha sparato non è stato mai preso (o meglio: non ancora). La mitraglietta che ha sparato, invece sì. La ritrovò la polizia molti anni dopo, in un covo ornato da una bandiera rossa con la stella a cinque punte che è entrato nella storia del delitto Moro: via Montenevoso, a Milano. Dopo quel delitto anche l'arma aveva fatto carriera. Nel volantino di rivendicazione si firmarono: «Nuclei armati per il contropotere territoriale». Tre morti, vuol dire strage. Ma quello che segnò un punto di non ritorno per una intera generazione, a destra, fu che due delle tre vittime – Franco e Francesco furono uccisi dal commando dei terroristi rossi. La terza no. Stefano Recchioni morì per un proiettile sparato da un ufficiale dei carabinieri, Edoardo Sivori (condannato, al termine di un lungo processo, per «eccesso colposo di legittima difesa»). Era accaduto dopo che il tam tam aveva diffuso per tutta la Roma la notizia della strage. Tutti i militanti della destra romana erano accorsi davanti alla sezione dell’Appio latino. La tensione si tagliava con il coltello, c’erano tutti i futuri dirigenti del partito, compreso un giovanissimo Gianfranco Fini, ancora riconoscibile, in un’istantanea dell’epoca con un lungo impermeabile bianco. Fini si sta accendendo una sigaretta insieme ad un ragazzo più basso di lui. Il ragazzo è Stefano Recchioni, e alla loro sinistra c’è la pozza di sangue dove poco prima è stato ferito a morte Franco. Sopra c’è un mazzo di fiori. Cinque minuti dopo quello scatto, i due destini che sono stati uniti da quella sigaretta fumata insieme con inquietudine si dividono per sempre: Stefano cammina verso il fondo della piazza, dove, anche per via della rabbia e della tensione per i due morti, sta esplodendo una rissa per un ragazzo che è stato appena fermato. Fini resta dov’è. Quando Sivori spara, Stefano viene colpito alla fronte, e la pallottola lo trapassa da parte a parte. Proveranno a dire, gli avvocati del carabiniere, che è un colpo di rimbalzo, che proveniva dalle stesse fila di Stefano. Ma non ci vuole un perito balistico per dimostrare che è una follia.

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  9. Acca Larentia, cerimonie e polemiche
    30 anni dopo. Storace: «Che non sia un happening»
    Francesco Storace

    ROMA (6 gennaio) - Domani mattina sarà un appuntamento condiviso, ma non senza polemiche, dalle diverse anime della diaspora del Msi: l'appuntamento per il trentesimo anniversario della strage di Acca Larentia, in cui la sera del 7 gennaio 1978 furono uccisi tre giovani missini (Francesco Ciavatta, Franco Bigonzetti e Stefano Recchioni) davanti all'allora sede del Msi-Dn di via Acca Larentia, nel quartiere Tuscolano a Roma, oggi sede di Fiamma Tricolore. Domani mattina il leader di An, Gianfranco Fini, deporrà, accompagnato dal presidente della Federazione romana di An, Gianni Alemanno, una corona di fiori sul luogo della strage. Alle 15, nella chiesa di San Gaspare del Bufalo, ai Colli Albani, è prevista una messa, mentre alle 18, alla stessa ora in cui avvenne la strage, partirà una manifestazione dalla fermata "San Giovanni" della metro A, in piazzale Appio per arrivare in via Acca Larentia, organizzata da Fiamma Tricolore.

    Storace: non deve diventare un happening. Non ci sarà il leader di "La Destra", Francesco Storace, che attacca: «Ad Acca Larentia dovrebbero andarci tutti senza scorta, evitando fastidiosi e imponenti servizi d'ordine. Come Franco, Francesco e Stefano. Invece vedo che il trentennale di un martirio rischia di trasformarsi in un happening strumentale. Senza alcuna riflessione sul sacrificio di tre ragazzi che con sacralità dobbiamo chiamare camerati, nel significato più profondo di questa parola di guerra e amore, di fede e di comunità».

    «Io c'ero, tra i ragazzi di Acca Larenzia - continua Storace - Era difficile fare futuro mentre ti menavano, ti sprangavano, ti sparavano. C'ero prima e c'ero anche un anno dopo la strage, quando sette pallottole ad altezza d'uomo le mirarono verso di me. Non ci presero, per fortuna. Avrei titolo ad esserci anche domani, trent'anni dopo - sottolinea Storace - ma ragiono su anni di contaminazione da potere che hanno riguardato un'intera generazione. Franco, Francesco e Stefano non sono caduti per un pezzo di potere, ma per valori e ideali calpestati con troppa facilità. Ci siano i militanti senza bandiere, ma con l'orgoglio di crederci ancora. Ci sarà Teodoro Buontempo. Io probabilmente andrò a Napoli a ricordare il 7 gennaio con Luigi Ciavardini: entrò in quella sezione due giorni prima della strage».

    Fiamma tricolore presente alle manifestazioni. Ad entrambi gli appuntamenti parteciperà il segretario nazionale della Fiamma Tricolore, Luca Romagnoli: «Mi fa piacere che ci siano un po' tutti. E' un'occasione per sentire quei valori e quelle idee per cui morirono quei ragazzi, per alcuni assopiti e ora sembra risvegliati. Un suggerimento a Fini: invece di andare ad Acca Larentia alle 9 può andarci alle 7 del mattino, così è sicuro che non lo vede nessuno». Al corteo ci saranno anche i giovani del Nucleo romano di "Gioventù italiana" di La Destra.

    Intitolare una strada ai tre caduti «Una strada da intitolare ai martiri di Acca Larentia per ricordare il sacrificio di tre ragazzi caduti per un'idea. in una strage senza nessun colpevole». E' quanto dichiarano in una nota Fabio Schiuma e Roberto Lupini, rispettivamente portavoce e dirigente romano di La Destra. «Per Franco Bigonzetti - continuano - Francesco Ciavatta e Stefano Recchioni chiediamo il cambio di nome, rispettivamente, di via Evandro, via Acca Larentia e largo Orazi e Curiazi, o almeno una lapide sui luoghi dove sono caduti e una strada in ricordo dei "martiri di Acca Larentia"».

    «Al prossimo consiglio comunale - conclude Schiuma - proporrò a ogni collega di sottoscrivere una mozione senza nessun primo firmatario, per evitare ogni incomprensione, come accaduto purtoppo per la richiesta di una strada da intitolare alla memoria di Giorgio Almirante».

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  10. La storia...



    …Mercoledì 10 gennaio 1979, è passato un anno dalla strage di Acca Larenzia, dove tre ragazzi di vent’anni, militanti del Fronte della Gioventù venivano trucidati. Ad un anno di distanza i colpevoli sono ancora liberi di colpire impunemente; è contro questo stato di cose che il FdG e il Fuan, le organizzazioni giovanili del Movimento Sociale, hanno organizzato delle manifestazioni di protesta in diversi punti della città; glia nimi sono già caldi e la situazione è tesissima, la polizia ha infatti vietato un corteo silenzioso nel centro di Roma. Quartiere Centocelle. I palazzi fatiscenti rendono la borgata ancora più cupa a triste. Nella zona c’è una sede della D.C., è lì che giovani missini hanno deciso di urlare la loro rabbia, trovando in quella sede il simbolo di tante angherie e ingiustizie. Finita senza incidenti la manifestazione i ragazzi cominciano ad allontanarsi, solo Alberto ed un altro camerata si attardano; sopraggiunge nel frattempo una macchina civile della polizia, una 128 bianca, dalla quale scendono due poliziotti in borghese che cominciano a seguire per qualche metro Alberto ed il suo amico. Improvvisamente uno dei due, Alessio Speranza, si piega sulle ginocchia, come si fa al tiro a segno, tenendo la pistola a due mani, puntando con calma, spara un colpo che raggiunge Alberto alla testa. Gli assassini spostano la loro macchina, in modo da proiettare i fari su Alberto che sta morendo.



    Appare chiaro ed evidente, a tuta la gente che accorre, che Alberto è disarmato. Dalle testimonianze i due assassini fanno allontanare tutti, facendo rimanere Alberto sull’asfalto per più di venti minuti, tremante e morente. Da subito la versione ufficiale è che il giovane Alberto Giaquinto era armato di una P38 e quindi ha provocato una legittima difesa, dopo la prima versione fatta miseramente cadere, arriva la seconda che afferma che la pistola non c’è, ma ci sono delle munizioni nella sua tasca. All’ospedale S.Giovanni dove viene trasportato con colpevole e fatale ritardo, Alberto ritrova nella breve ora che gli resta l’amore della famiglia accorsa in preda all’angoscia e all’incredulità. In quel letto di morte Alberto appare ancora più piccolo e indifeso, lui forte, aitante e autentico inno alla vita,com’era; amava dire che avrebbe avuto tempo per scendere a compromessi, adesso voleva solamente fare quello che sentiva giusto, servire il suo scomodo, pericoloso, difficile ideale.



    Torna alla mente la sua cameretta con la libreria ordinata e la scrivania ancora piena di libri, la bandiera tricolore con il simbolo del MSI, in bella evidenza; gli amici e i camerati delle ore di impegno politico, con cui divideva anche i soldi per fare un volantinaggio o passare lunghi pomeriggi a discutere di problemi reali e attuali. Esattamente alle ore 20:30, due ore e 18 minuti dopo il ferimento, Alberto muore. Nello stesso istante in cui Alberto moriva, la sua casa veniva oltraggiata da una perquisizione senza un ordine scritto, effettuata da sgherri del sistema che mettevano a soqquadro la casa, cercando non si sa bene cosa; non contenti di ciò banchettarono con disinvoltura nel salone.



    Attualmente il boia Alessio Speranza è in libertà, come lo è da ventidue anni. Il nostro fratello Alberto da ventidue lunghissimi anni ci ha lasciato. Aveva 17 anni.

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  11. Almeno in questi momenti la destra si presenta unita!!!
    Una piccola speranza della maggioranza silenziosa che sa ancora amare e ricordare!!
    AVANTI CAMERATI!!

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  12. ACCA LARENTIA, UN RICORDO SENZA “SIGLE” (di Marcello de Angelis)
    January 31, 2008 on 3:10 pm | In Documenti, Cultura, Approfondimenti, Opinioni |

    da www.destrasociale.org

    Cari amici, anzi, camerati. Non mi rivolgo a quelli che ti si avvicinano brandendo il telefonino e ti dicono “a Marce’, ce l’hai il coraggio di farti una foto con noi col saluto romano?”. Mi rivolgo a “quelli che c’erano” e - ognuno secondo la sorte - hanno avuto il coraggio, in un momento o in un altro, di affrontare ben altri rischi. Parlo di tutti quelli che - oggi distribuiti sotto varie sigle o allontanati dalla politica attiva - a un certo punto della loro vita hanno sofferto, sanguinato e pianto, per tenere alta la bandiera che mille altri avevano lasciato nel fango o non avevano il coraggio di abbracciare. Mi riferisco a tempi - è ovvio - in cui non c’era nulla da guadagnare, se non qualche punto di sutura e giorni di carcere e/o ospedale. Sono quelli che hanno portato le croci, ma anche le bare, e hanno perso in prima persona amici, parenti, persone care. Quelli che la sofferenza per quelle perdite la portano dentro e quasi hanno pudore di parlarne, soprattutto quando quei nomi, quei fatti, quel dolore, vengono fatti propri da altre persone, magari solo per farsene portavoce agli occhi del vasto pubblico. Non è bello farsi vanto della propria sofferenza, ma sicuramente lo è ancor meno - essendo stati risparmiati dal dolore della perdita - cercare di farsi vanto o acquisire credito strumentalizzando la sofferenza altrui.
    Come si può sopportare che persone che - mentre altri sceglievano la via senza uscita e senza profitto della testimonianza e dell’orgoglio - avevano l’intelligenza di costruirsi il proprio posto nella società che ci combatteva e noi combattevamo, che festeggiava ai party e nelle discoteche mentre noi eravamo in cella, che cercava di soddisfare la propria autostima con i bei vestiti, le amicizie miliardarie o quella dei potenti, possa oggi - e sempre con maggior clamore - farsi portavoce della nostra anima e della nostra memoria?
    La peggiore sofferenza che io ricordi era la frustrazione di dover sempre leggere il nostro ritratto scritto da qualcun altro. Ricordate la rabbia, nel leggere gli articoli che parlavano di noi sui quotidiani e sui rotocalchi descrivendoci come noi assolutamente non eravamo? E ancora peggio le interviste - spesso inventate - a nostri “rappresentanti” che davano voce a tutto ciò che i nostri nemici dicevano di noi, corroborando l’immagine che volevano cucirci addosso? E i libri che spiegavano al mondo, con serietà accademica, la nostra satanica ideologia che portava inevitabilmente al genocidio, alla strage, allo stupro? Noi dicevano “no, questi non siamo noi! Noi siamo l’opposto di tutto questo!”. Ma potevamo dircelo solo tra noi, perché chi possedeva il potere di “far sapere le cose” non aveva nessun interesse che si conoscesse l’esistenza della nostra realtà, perché non era funzionale agli equilibri di quel potere che si reggeva su un patto che aveva nell’antifascismo il suo collante e aveva dunque bisogno che, agli occhi di tutti, i fascisti fossero come li ritraeva la Repubblica. E noi non avevamo voce.
    E oggi che quell’argine è crollato e definirsi di destra non conduce più alle celle dell’inquisizione o al rigetto sociale, non è accaduto affatto che sia concesso a noi di dire com’è realmente questa destra. Ci pensano sempre comunque gli altri, quelli che prima di destra non erano e quindi avevano il diritto di parlare e che poi, per il rimescolarsi delle carte, non essendo più a sinistra, hanno dovuto ritagliarsi un ruolo che li mantenesse comunque alla ribalta, creando una destra che è a loro immagine e somiglianza, rubandoci la nostra lingua per esprimere l’identità loro, che prima raccontavano invece con le parole dei nostri nemici.
    «Quei ragazzi non sono morti per il Ppe» si sente dire. O per dirla con una canzone della Compagnia, non sono morti certo gridando “viva il libero mercato!”. Ma erano anche ragazzi che chiamavano Oriana Fallaci “Oriana Lefeci” e facevano vignette offensive nei suoi confronti. Adesso che grazie ad una operazione mediatica nemmeno tanto sofisticata è lei che è diventata l’ideologo della destra italiana - spazzando via tutti quelli che ci avevano formato dalla fine dell’ottocento fino agli anni Ottanta - ve lo ricordate il perché di tanta antipatia?
    Forse perché su di noi - e contro di noi - scriveva esattamente le medesime cose che ha scritto nei suoi ultimi libri, sostituendo appena poche parole (“identità dell’occidente” ad “antifascismo”, “valori della democrazia” a “valori della costituzione”…) e riciclando tutta la sua verve distruttiva spostando la mira con l’aggiunta di sole tre sillabe: “is-la-mo”. Il nemico da distruggere, per tutta la sua vita era stato il “fascista”, negli ultimi mesi della sua esistenza si è trasformato in un più attuale “islamo-fascista”, ma nel suo mirino c’eravamo comunque anche noi. Ma solamente noi, non i suoi amici di allora che nel frattempo si sono proclamati portavoce della destra. Loro sì - e per forza di cose! - di una destra che deve essere anti-fascista, perché si vuole rappresentata in prima persona da gente che è stata sempre ed è coerentemente antifascista. Oggi per loro il nuovo Hitler non è Freda, ma Ahmadinejad, i “nazisti” sono quelli di Hamas e gli “squadristi” sono gli hezbollah. E i “fascisti” sono i mussulmani, salvo quelli che, come accadeva per noi negli anni Settanta, si dichiarano pentiti e scrivono il loro Memorie di un picchiatore fascista per confermare, con l’autorevolezza del correo, tutte le accuse che il tribunale dell’inquisizione sostiene contro i suoi ex-confratelli. Ci siamo già passati, come fate a non comprendere il gioco?
    Ma sia, se qualcuno preferisce come proprio “portaparola” chi invece delle cicatrici delle coltellate e delle sprangate ha quelle della chirurgia estetica, è padronissimo di farlo. Chi vuole continuare a fare il militante di base per permettere di restare sulla poltrona a qualcuno che, avendo litigato con quelli con cui andava a braccetto ieri, oggi potrebbe non avercela più garantita, faccia pure. In fin dei conti - per chi ha combattuto davvero - si tratta solo di sigle. Sono liste elettorali, non legioni. “Loghi” creati da studi pubblicitari, non “bandiere di sangue”…
    Ma i morti, per favore, non lasciamoglieli sfruttare. Voi che avete pianto a un funerale, ovunque siate oggi collocati, non potete veramente accettare che questo accada. Anche se significa spostare dieci voti sulla vostra lista, o sulla mia, o su quella del terzo vecchio amico che si è fatto una lista per conto suo. Che il sacro resti sacro, l’oro resti oro, non diventi cartamoneta.
    Quando nel 1988, nell’anniversario della morte di mio fratello, due gruppi rivali fecero un diverso manifesto commemorativo coprendoselo a vicenda e venendo alle mani in conseguenza della reciproca rivendicazione di proprietà su quel ragazzo morto, decidemmo che fosse più dignitoso, da allora in poi, ricordarlo in privato e in silenzio. Questo non ha impedito, in anni recenti, che qualcuno avesse la trovata di riutilizzare il suo nome in occasione degli anniversari, facendo dei manifesti con addirittura in calce il proprio indirizzo… E a nulla valsero le richieste cortesi di rispettare un nostro familiare, perché il suo primo pensiero fu che noi volessimo “privatizzarlo” per sfruttarlo a fini politici della nostra persona…
    Questo è dove siamo arrivati. Per favore, fermiamoci.
    TRATTO DA http://www.identitario.org/blog/?p=49#more-49

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